🟠 Per un pugno di chip
Perché Cina e Stati Uniti si contendono la supremazia nel settore dei semiconduttori, con Cesare Alemanni
Ciao, rieccoci su Borders 🌍
Sono molto contento che il passaggio all’appuntamento bisettimanale abbia convinto in pieno la comunità di Borders: la puntata sul Belgio ha suscitato molto interesse e tante riflessioni interessanti, posso solo dire grazie.
Questa settimana dal pop passiamo al geek e ci occupiamo di chip, degli oggetti molto piccoli con implicazioni molto grandi per il mondo intero: per l’occasione ne ho parlato con il giornalista Cesare Alemanni, autore della newsletter Macro, dove analizza le grandi trasformazioni di questi anni.
Cesare ha recentemente pubblicato un libro, Il re invisibile, dove ha ricostruito la storia poco nota dei microchip e parlerà di questi temi al Wired Next Festival domani alle 10:55 al Castello Sforzesco di Milano. Da queste premesse è nata una chiacchierata piena di spunti, che ha arricchito questa puntata.
Si comincia 🔽
Per un pugno di chip
Immagina di sederti davanti al tuo computer e iniziare a digitare una serie di lettere e numeri apparentemente casuali: è il modo in cui milioni di persone in Cina, e nel mondo sinofono, hanno trasformato una sequenza di tasti in caratteri e parole.
Il cinese non ha un alfabeto simile a come lo intendiamo noi: utilizza oltre cinquantamila caratteri (a stare stretti), rendendo il modello delle nostre tastiere difficile da adattare.
Questo processo di adattamento, noto come «input» o «shuru» in cinese, è uno degli aspetti forse più interessanti della tecnologia moderna. Utilizzando un sistema sofisticato chiamato «Input method editor» (Ime), gli utenti navigano tra la loro tastiera Qwerty e l'esigenza di produrre un testo in cinese.
Che si tratti di redigere documenti, navigare sul web o inviare messaggi, gli Ime sono sempre al lavoro, interpretando i tasti selezionati per determinare i caratteri appropriati da visualizzare.
Questo intricato sistema è stato il cuore dell'esperienza informatica per gli utenti cinesi. Mentre i caratteri sulla tastiera possono sembrare completamente diversi da quelli che appaiono sullo schermo, ogni digitazione su una tastiera Qwerty è un passo verso la comprensione di un linguaggio codificato, unico nel suo genere, che continua a plasmare l'interazione uomo-computer per milioni di persone ogni giorno.
Thomas Mullaney, docente americano di Storia specializzato in cultura dell’Asia orientale, nel suo nuovo libro The Chinese Computer esplora come il sistema Ime abbia rappresentato una «soluzione alternativa», fondamentale per lo sviluppo tecnologico. Oggi si parla tantissimo di intelligenza artificiale e veicoli elettrici cinesi e l’Ime, secondo Mullaney, è una tecnologia meno celebrata ma altrettanto importante.
Attraverso una sequenza di tasti, è stato possibile rappresentare concetti complessi e superare la barriera delle migliaia di caratteri: sviluppato sin dagli anni Quaranta, questo sistema ha permesso alla Cina di competere efficacemente con l'Occidente in campo tecnologico.
Si tratta di uno sviluppo per certi versi simile alla situazione attuale che riguarda i chip, dove Pechino sta cercando di ridurre la dipendenza dagli approvvigionamenti esteri: l’Ime ha «aggirato» i sistemi occidentali che non erano in grado di gestire nativamente la scrittura cinese.
Dai primi tentativi di adattare le macchine da scrivere occidentali ai caratteri cinesi fino agli Ime, l'evoluzione di queste tecnologie ha visto il coinvolgimento di ingegneri cinesi, militari taiwanesi, aziende tecnologiche come Ibm e altri attori internazionali. Un po’ quello che succede oggi con i semiconduttori.
Una storia che non è fatta solo di progresso tecnologico, ma anche di resilienza e adattabilità di fronte alle sfide globali. Come evidenziato dal contributo di figure come Zhi Bingyi, un ingegnere cinese che ha sviluppato un Ime rivoluzionario: grazie a questo filone di ricerca, la Cina ha dimostrato di saper sviluppare soluzioni locali per le proprie esigenze tecnologiche, un tema rilevante nell'era moderna dei chip e della sovranità tech.
Perché tenere d'occhio i chip
La storia dell’Ime e della risposta cinese alle tastiere Qwerty ci aiuta a introdurre il grande tema di questa settimana: lo scontro tra Cina e Stati Uniti per il dominio del settore dei semiconduttori.
(Piccolo disclaimer: un semiconduttore è un materiale con proprietà elettriche specifiche, mentre un chip è un dispositivo elettronico realizzato con semiconduttori, contenente circuiti integrati per eseguire funzioni come elaborazione dati o memorizzazione).
In prima battuta, però, perché c’è così tanta attenzione su questi dispositivi? È una domanda che ho girato direttamente a Cesare Alemanni all’inizio della nostra chiacchierata: i fattori sono molti, ma forse la risposta che è emersa con più forza riguarda l’impatto che lo sviluppo di questa tecnologia ha avuto sull’evoluzione del mondo e della società.
«Probabilmente, se si guarda a tutti i cambiamenti della contemporaneità dagli anni Cinquanta a oggi, i chip hanno guidato l’innovazione in moltissimi ambiti: è possibile osservare una correlazione tra gli avanzamenti nel settore dei semiconduttori e una serie di effetti a cascata che hanno riguardato la tecnologia e non solo», mi spiega Cesare.
«Soltanto per fare un esempio», prosegue, «è grazie all’evoluzione dei chip se i pc sono diventati un bene a disposizione di chiunque: se pensiamo ai primi computer, usati in ambito militare o scientifico, occupavano una stanza intera ed erano molto costosi. La miniaturizzazione dei chip e il loro sviluppo tecnico ha permesso di arrivare ai device di oggi, più piccoli ed economici».
I chip servono a elaborare e comprendere montagne di dati e possono svolgere una varietà di funzioni: ad esempio, chip di memoria, che immagazzinano i dati, o chip logici, che eseguono programmi e fungono da «cervello» di un dispositivo.
Gran parte dei device che usiamo tutti i giorni dipende sempre più da questi strumenti: ogni pulsante di un'auto richiede chip semplici per tradurre quel tocco in segnali elettronici e tutti i dispositivi alimentati a batteria ne hanno bisogno per convertire e regolare il flusso di elettricità, ad esempio. Che si tratti di intelligenza artificiale, lavastoviglie o missili ipersonici, al centro di tutto ci sono i semiconduttori.
C’è un problema però: sono difficili e costosi da produrre e poche aziende ne controllano il mercato; tutto questo ha contribuito a trasformare l’accesso ai chip in un'arma geopolitica, accendendo la competizione tra Stati Uniti e Cina.
Fare i conti con la Cina
Nel 2022, l’amministrazione Biden ha provato ad alzare il livello della competizione con il Chips and Science Act, un provvedimento da oltre cento miliardi di dollari in sovvenzioni, prestiti e garanzie per le aziende di semiconduttori al fine di costruire impianti in America.
Secondo uno studio condotto dalla società di consulenza Boston consulting group, la capacità di produzione nel paese triplicherà entro il 2032, portando la quota degli Stati Uniti nell'industria al 14%, rispetto al 10% attuale, e riducendo la dipendenza americana dall’Asia, dove si concentrano gran parte delle fabbriche leader del settore.
Washington non è stata la sola a potenziare la sua industria: anche la Cina sta costruendo nuove strutture per le varie fasi della catena di approvvigionamento, secondo alcuni in maniera anche più sostenuta degli Stati Uniti.
Nonostante una spesa enorme, però, per il momento i produttori di chip cinesi non sono ancora del tutto autonomi e il loro accesso alle tecnologie straniere si sta restringendo sempre più, a causa dei controlli più rigidi sulle esportazioni imposti dagli Usa.
All'inizio di quest’anno, gli Stati Uniti hanno pressato i loro alleati per restringere ulteriormente l'accesso alla Cina, ma questo non sembra aver fermato Pechino, come per la tastiera Qwerty: lo scorso anno Huawei ha annunciato il suo nuovo smartphone Mate 60 Pro, alimentato da un microprocessore più avanzato di quanto teoricamente consentito dalle restrizioni statunitensi.
«Se da un lato gli americani possiedono maggiori competenze e know-how», sottolinea Cesare, «hanno bisogno di rilanciare il lato produttivo. La Cina, invece, è molto forte nella produzione di legacy chips, meno all’avanguardia ma molto diffusi: ora prova a imporsi in questo segmento, come ha fatto con i pannelli solari o le batterie per distruggere i profitti occidentali».
«La vera ragione per cui Washington si è concentrata su questo scontro però è lo sviluppo di applicazioni dell’intelligenza artificiale con finalità militari». L’obiettivo americano è impedire a Pechino di arricchire il proprio arsenale: «il vero motore di queste innovazioni (e il vero spauracchio) è sempre la difesa».
E l’Europa?
Last but not least, dove si posiziona il nostro continente in questa corsa? «L’Europa ha due eccellenze assolute nella catena del valore dei chip: l’azienda olandese Asml e il centro di ricerca Imec. Nel complesso, però, l’Unione potrebbe e dovrebbe fare di più», dice Cesare Alemanni.
Anche l’Europa, infatti, vorrebbe ridurre la dipendenza dall’Asia in materia di chip: i paesi dell'Ue hanno concordato a novembre 2023 un piano da oltre quaranta miliardi di euro per dare impulso alla loro produzione di semiconduttori.
I due maggiori progetti europei sono in Germania: una fabbrica di Intel prevista a Magdeburgo del valore di circa trenta miliardi di euro e una joint venture dell’azienda taiwanese Tsmc da circa dieci miliardi. In generale, comunque, l’Ue non sembra tenere il ritmo di Cina e Usa in questo momento, anche a causa di una mancanza di visione e autonomia della sua politica, percepibile in vari campi.
«L’Europa ha vari problemi per entrare fortemente in questo settore: ci sono costi che sono e saranno fuori dalla portata dell’Ue e non c’è un atteggiamento comunitario, ma di rivalità tra i singoli membri», prosegue Cesare, secondo cui la regione pacifica (sia sulla sponda asiatica che su quella americana) gode di una maggiore spinta rispetto a quella atlantica (sia europea che americana).
Altri paesi europei hanno faticato a finanziare progetti importanti o ad attrarre aziende: la Spagna ha annunciato nel 2022 che avrebbe destinato dieci miliardi di euro ai semiconduttori, ma ha distribuito solo piccole somme a una manciata di aziende. In Italia, si è a lungo parlato di nuovi impianti, fino all’apertura di uno stabilimento di Silicon Box, azienda con sede a Singapore, dopo il fallimento delle trattative con Intel.
«Una chance per l’Unione», mi spiega Cesare verso la fine della nostra chiacchierata, «potrebbe essere provare ad anticipare altri trend e intercettare nuove tecnologie, su cui non paga il ritardo accumulato con i chip. I poli di ricerca non mancano».
Per approfondire:
Nella newsletter di oggi ho deciso di non soffermarmi sulla questione di Taiwan, hub globale dei semiconduttori, che abbiamo già analizzato su Borders e che merita un discorso a parte, su cui potremmo tornare in futuro. Mi premeva introdurre il discorso sulla competizione diretta Usa-Cina.
Oltre al libro e alla newsletter di Cesare, dove trovate molti spunti in merito, per scoprire di più c’è questo approfondimento di Bloomberg che fornisce ulteriore contesto sull’importanza di questo dossier, mentre questo racconta la sorpresa di Huawei di cui parlavamo in precedenza.