🟠 Paranoia, previsioni e Terza guerra mondiale
I 75 anni della Nato sono l'occasione per parlare di alcuni esponenti dell'Alleanza che si sono trasformati in scrittori, influenzando in alcuni casi il racconto delle tensioni globali
Ciao, rieccoci su Borders 🌍
Dopo una settimana di assenza, sono tornato con una puntata speciale: oggi parleremo della Nato, che in settimana ha spento ben settantacinque candeline.
Lo faremo dando un’occhiata alla future war fiction, un genere letterario molto particolare, che ha visto vari alti rappresentanti dell’Alleanza impegnarsi in romanzi utili per capire gli scenari passati, presenti e futuri.
L’ipotesi di nuova guerra mondiale è stato un topic spesso al centro di queste opere, ma allo stesso tempo è davvero un tema realistico che oggi dovrebbe affollare le prime pagine dei giornali? L’ho domandato ad Andrea Gilli, ricercatore ed esperto di Affari militari che ha lavorato al Nato Defense College.
Ne ho approfittato anche per chiedergli qualcosa in più su come sia cambiata l’Alleanza in questi settantacinque anni e le sfide che attendono le potenze occidentali. Non ci resta che cominciare 🔽
Paranoia, previsioni e Terza guerra mondiale
Dopo una lunga carriera militare, negli anni Settanta il generale britannico della Nato Sir John Hackett iniziò a dedicarsi alla scrittura. Il frutto più importante del suo lavoro è una storia che già dal nome è tutto un programma: La terza guerra mondiale, un classico dei tempi della Guerra fredda.
Hackett servì nell'esercito britannico per oltre trent’anni, venne ferito ad Arnhem mentre era al comando della 4ª Brigata paracadutisti, diventò comandante della 7ª Divisione corazzata nel 1956 e dieci anni dopo fu nominato comandante dell'Armata britannica del Reno.
Proprio da comandante, Hackett scrisse una controversa lettera al Times in cui criticava la scarsa attenzione prestata dal governo britannico alla solidità delle forze Nato in Europa. La sua preoccupazione per gli investimenti nella difesa si manifestò con la pubblicazione di Third World War, uscito in due edizioni nel 1978 e nel 1982.
Nel suo libro Hackett racconta di un'incursione sovietica in Jugoslavia seguita una settimana dopo da un attacco totale del Patto di Varsavia contro la Nato, utilizzando sia forze convenzionali che armi chimiche. Tra le altre cose, le pagine della Terza guerra mondiale descrivono lo scontro tra superpotenze, lo stallo militare e l’uso di armi nucleari.
Il lavoro di Hackett si colloca all'interno di un genere ben consolidato, una corrente che nel mondo anglosassone è nota come future war fiction, dove i conflitti del futuro prossimo prendono il centro del palcoscenico.
Questa tendenza comprende titoli come il romanzo del generale britannico Sir George Tomkyns Chesney, La battaglia di Dorking (1871), un po’ il capostipite del genere, dove si racconta un'invasione della Gran Bretagna da parte di una nazione di lingua tedesca.
In quest’opera le truppe britanniche sono in ritirata dalla città di Dorking, nel sud dell'Inghilterra, con l'esercito tedesco alle calcagna. Dopo aver spazzato via la Royal Navy con nuovi armamenti, i tedeschi si preparano a sconfiggere il malmesso esercito britannico. Quasi da un giorno all'altro, Londra perde il suo impero e la sua dignità, almeno secondo Chesney.
Di opere di questo tipo ce ne sono molte altre, come La guerra dei mondi di H.G. Wells, pubblicato a puntate negli ultimi anni del Novecento, che ha pescato a piene mani dalla Battaglia di Dorking.
Non bisogna per forza andare così indietro nel tempo per trovare altri esempi. Anche l'ammiraglio James Stavridis, ex comandante delle forze Nato in Europa, nel 2021 ha dato il suo contributo al genere pubblicando 2034, un thriller geopolitico scritto insieme al giornalista Elliot Ackerman che immagina la Terza guerra mondiale come uno scontro navale tra Stati Uniti e Cina nel Mar Cinese Meridionale.
Il successo di 2034 è stato molto vasto, tanto che quest’anno è uscito quello che potremmo definire un sequel: in 2054, Stavridis e Ackerman si concentrano sul progresso dell'intelligenza artificiale, che si combina con la violenta polarizzazione politica americana per creare una minaccia per il Paese e per il resto del mondo.
È interessante notare come sia la narrazione di Hackett che quella di Chesney, e in misura minore quelle di Stavridis e Ackerman, mostrino una certa paranoia, una nevrosi rivolta più verso l'impreparazione o le debolezze del loro Paese che verso la forza degli avversari.
Le loro opere sono in certo senso un attacco ai governi, dei manifesti programmatici per un rinnovamento delle strutture militari. «Se vogliamo evitare una guerra nucleare, dobbiamo essere pronti ad affrontarne una convenzionale», diceva Hackett.
Tale invece era il fascino di Chesney che le sue pagine attirarono la denuncia personale dell'allora primo ministro britannico William Gladstone, determinato a evitare ulteriori spese per la difesa.
Chiudendo La battaglia di Dorking con il ritratto di una Gran Bretagna desolata e occupata, Chesney decise di lasciare i suoi lettori osservando che «una nazione troppo egoista per difendere la propria libertà non poteva essere in grado di conservarla».
Scenario di guerra?
Il lavoro di Sir John Hackett e della future war fiction si presta per aiutarci a comprendere come mai l’ipotesi di un nuovo grande conflitto globale sia uno scenario, quasi un topos narrativo, onnipresente nel racconto delle tensioni globali, non ultimo il conflitto in Ucraina.
Ad esempio, alcuni sostengono che ci siano preoccupanti parallelismi tra il 2024 e il 1939, tra cui l’esperto di Sicurezza globale della Cnn Jim Sciutto. Nel suo ultimo libro, The Return of Great Powers: Russia, China, and the Next World War, Sciutto valuta i rischi di una nuova guerra mondiale.
In questi due anni di scontro con la Russia, i media (anche e soprattutto italiani) sono passati però da analisi e scenari ipotetici al racconto di una resa dei conti definitiva tra la Nato e il Cremlino, tirando in ballo grandi manovre militari dell’Occidente e ordigni nucleari in rampa di lancio da Mosca. La situazione però è ben diversa.
«Le ipotesi di guerra nucleare e conflitti totali non coincidono con la realtà», mi dice Andrea Gilli, ricercatore di Affari militari che ha lavorato presso il Nato Defense College, nelle battute finali della nostra chiacchierata. «La Russia sta conducendo un gioco fatto di disinformazione, agitando uno spettro nucleare per bloccare gli aiuti europei all’Ucraina e intimorire l’opinione pubblica».
Lo storytelling da Terza guerra mondiale ha coinvolto anche le frasi del presidente francese Emmanuel Macron, che poco tempo fa ha ipotizzato l’invio di truppe in Ucraina, se necessario a sostenere la resistenza di Kyiv.
«La logica di Macron è un’altra: sottolineare ai russi che potrebbero aver fatto male i conti sul possibile esito del conflitto; qualora l’Ucraina fosse in difficoltà, una reazione francese potrebbe scompaginare i piani del Cremlino e segnalare un prolungamento dello scontro», spiega Gilli.
L’aggressione russa in Ucraina ha caratterizzato la parte finale di questi settantacinque anni di Nato, ma oggi altri dossier, che a prima vista potrebbero sembrare fuori dal raggio delle competenze Nato, affollano le scrivanie degli alleati, come il cambiamento climatico, la guerra cibernetica o la sicurezza energetica.
«In questi anni, l’Alleanza è cambiata molto», mi racconta Andrea Gilli: «ha ampliato il suo raggio d’azione, il numero di membri è quasi triplicato, la proiezione geografica si è spostata verso est, sono aumentati i partner esterni all’organizzazione e la Nato si è trovata a operare su temi che vanno anche oltre la difesa».
Tutto ciò comporta però nuove valutazioni per i Paesi membri e ascoltando queste riflessioni salta subito all’occhio un elemento: il futuro della Nato passa da un delicato lavoro di equilibrio, un balancing act che possa garantire stabilità e sicurezza.
«La tensione tra vari temi rappresenta la vera sfida secondo me», osserva Gilli: «allocare più risorse alla difesa del fianco orientale significa indebolire le capacità di intervento militare in caso di disastro naturale, ad esempio».
«Questo discorso si estende a molti altri aspetti: privilegiare la regione orientale può significare scoprirsi sul fianco sud, proteggere le infrastrutture critiche come gasdotti e oleodotti può indebolire le difese al confine, e così via: questi dilemmi strategici sono parte integrante del decision making Nato».
L’altra questione dirimente che questo anniversario porta con sé è l’integrazione tra Nato e Unione europea, sempre più centrale per gli equilibri del continente. «Si tratta di due organizzazioni differenti ma complementari: la Nato è superiore in quanto a pianificazione militare, ma non ha la leva economica o le capacità legislative dell’Ue», aggiunge Andrea Gilli.
L’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato e il maggiore impegno della Danimarca nella difesa europea hanno contribuito a rafforzare questa sinergia, che però deve fare i conti con diversi ostacoli.
«Si tratta di due burocrazie con cicli politici diversi e i membri non sono esattamente gli stessi, ci sono Paesi Ue che non sono nella Nato e Paesi Nato che non sono nell’Unione», conclude Andrea Gilli. «In ogni caso, è difficile vedere un futuro per la sicurezza europea in cui le due organizzazioni non sono in collaborazione».
Per approfondire:
Cosa è cambiato in questi settantacinque anni di Nato, raccontato da Deutsche Welle;
Il costante allargamento della Nato dimostra l'attrattiva delle garanzie di sicurezza occidentali, sostiene Euractiv;
La Nato traccia una strategia di sopravvivenza a prova di Trump nel giorno del suo compleanno, su Axios;
Il mio racconto sull’inarrestabile corsa di Mark Rutte come prossimo leader dell’Alleanza atlantica, uscito qualche settimana fa su Linkiesta.
Un libro 📘
Timothy Andrews Sayle, Enduring Alliance, A History of NATO and the Postwar Global Order.