In passerella sotto le bombe
Un brand palestinese affronta il conflitto a Gaza tessendo femminismo, cultura locale e sostenibilità
Ciao! Secondo appuntamento con Borders 🌍
Come prima cosa, un enorme grazie a chi sta sostenendo Borders già da queste prime uscite, anche più di quanto mi aspettassi: percepire questo entusiasmo è un ulteriore stimolo.
Ogni settimana, analizzeremo un confine tra due Paesi o regioni da una prospettiva differente: lo faremo partendo da una storia legata alla società, all’arte o alla pop culture, ad esempio, per capire come la situazione di un confine vada oltre la pura geopolitica (ci sarà anche quella, in ogni caso).
La settimana scorsa abbiamo parlato di Ucraina, stavolta tocca a Gaza: per raccontare i confini dovevamo partire dai più caldi al mondo. Di Israele e Hamas ne hanno (abbiamo) parlato in tutte le salse, ma qui voglio proporti una lettura differente.
Si tratta della storia di un brand di moda palestinese, che ci può aiutare a capire cosa significa lavorare e vivere a Gaza. Proveremo anche a riflettere sui confini tra Israele e il mondo arabo, per mettere in prospettiva quanto abbiamo visto in questi mesi e capire cosa ci aspetta in futuro.
Cominciamo 👇
In passerella sotto le bombe
Yasmeen Mjalli ha fondato Nöl Collective, un brand di moda che lavora all'intersezione tra femminismo, cultura palestinese e sostenibilità.
Nonostante viva a Ramallah, in Cisgiordania, non ha mai incontrato molte donne residenti nella Striscia di Gaza che intrecciano il tessuto Majdalawi che usa nelle sue collezioni. La comunicazione è sempre avvenuta esclusivamente tramite WhatsApp, anche prima del 7 ottobre 2023, il giorno in cui è scoppiata una nuova fase del conflitto tra Israele e Hamas.
Il brand di Mjalli è fondato sulla moda etica e sull’importanza del rapporto con il territorio: Nöl ha realizzato capi e accessori con piccole aziende a conduzione familiare e cooperative femminili in Cisgiordania e a Gaza, sostenendo la produzione, il talento e l'artigianato locali.
"Ho lavorato con sarte i cui nipoti erano stati assassinati", ha raccontato Mjalli al Guardian qualche mese fa, prima dell’inasprirsi degli scontri. “Questa è la realtà che stiamo affrontando". Oggi è ancora peggio: le donne e gli uomini che lavoravano per Nöl sono stati sfollati da Gaza e gran parte di loro non ha più una casa o cibo a sufficienza.
I modelli del brand sono realizzati con coloranti naturali locali e rifiniti con forme tradizionali tatreez, l'arte del ricamo palestinese riconosciuta dall'Unesco. In origine si trattava di un modo per le donne di segnalare il loro stato civile o la loro origine regionale, ora è un simbolo politico di resistenza.
“Penso che finora la moda e gli indumenti siano stati il mezzo attraverso cui raccontare le nostre storie sul popolo palestinese, su questa terra, sulla sostenibilità”, ha spiegato la designer.
Mjalli e il suo brand rappresentano un’eccezione in positivo, nonostante tutte le difficoltà: in queste aree, la situazione per chi ha meno di trent’anni è proibitiva da anni. Anche prima del 7 ottobre, la disoccupazione giovanile era di gran lunga superiore al 50%, per non parlare di quanto potesse essere difficile fare impresa.
Guardando al futuro, la devastazione di gran parte della Striscia non suggerisce un miglioramento delle condizioni: qualora si raggiungesse una qualsiasi forma di pace, ci vorrebbero anni (forse generazioni) per ricostruire un ecosistema funzionante per i cittadini.
I confini sono parte del problema: assumono un carattere non solo geografico e politico ma anche economico e sociale. Le barriere, i muri e i checkpoint stabiliti dai governi israeliani negli anni Novanta e Duemila, anche in seguito all’Intifada palestinese, hanno segnato in maniera indelebile lo sviluppo delle comunità locali.
Ridisegnare la mappa
La stessa Mjalli racconta di quando la madre le ha telefonato per informarla che il checkpoint che aveva intenzione di attraversare per ritirare alcuni pezzi finiti dal laboratorio di Nablus era stato chiuso: "c’è una sparatoria, il checkpoint viene immediatamente chiuso, scattano i blocchi e all'improvviso quella che sarebbe un'ora e mezza di viaggio si trasforma in tre o quattro ore, se sei fortunato e il confine si apre".
La storia (anche recente) del conflitto israelo-palestinese conferma questo trend: pochi giorni prima del 7 ottobre, durante un discorso alle Nazioni Unite, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva mostrato una mappa di Israele che includeva nel suo territorio Cisgiordania e Gaza.
Si tratta di uno scontro di lunga data che riguarda l’area compresa tra il fiume Giordano a est e il Mar Mediterraneo a ovest. Sin dal dopoguerra, i confini hanno segnato una colonna portante delle evoluzioni in questa regione: i vari piani di suddivisione del territorio sono sempre stati molto contestati, caldeggiati a volte dall’Onu e altre volte dalle potenze di turno.
Dopo la prima spartizione approvata dalle Nazioni Unite nel 1947, i confini sono stati immediatamente modificati dalla guerra arabo-israeliana nel 1949. Se da un lato negli anni i rappresentanti palestinesi hanno reclamato per intero la regione, spingendo per la nascita di un vero e proprio Stato, Israele ha sempre fatto dell'allargamento dei confini una priorità della sua azione politica e militare, in funzione sia difensiva che offensiva.
A sud, gli israeliani hanno più volte ridisegnato la frontiera con l’Egitto, arrivando anche nei pressi del canale di Suez dopo la guerra dei Sei giorni; a nord, la pressione sulle alture del Golan ha prodotto vari scossoni con la Siria.
A est, la sponda destra del Giordano (la famosa West Bank) è sempre stata un dossier delicato con la vicina Giordania. Anche il corso dello stesso fiume Giordano è stato oggetto di varie ostilità.
Dalla spartizione Onu del 1947 in poi, Israele ha accresciuto in maniera considerevole l’estensione dei propri possedimenti, tra acquisto di terreni, operazioni militari e insediamento di coloni. Le forze più estremiste dell’arco politico israeliano oggi non fanno mistero dei loro piani: continuare l’avanzata e aumentare la porzione di territorio sotto il controllo israeliano, costi quel che costi.
Proprio per questi motivi, il revival della soluzione dei “due Stati” promosso da più parti (compresi gli Stati Uniti) nel corso di questi mesi sembra essere poco futuribile: la sproporzione delle forze in campo è evidente e Israele non sembra intenzionata a sostenere la nascita di uno Stato palestinese, nonostante le pressioni internazionali.
Nel caso di Netanyahu, che ha costruito la sua carriera politica in parallelo all’ascesa di Hamas, questo discorso vale doppio: perché cambiare una situazione che gli ha garantito così tanti consensi in questi anni?
Di questo passo, Israele prima o poi potrebbe prendere pieno possesso di tutta l’area, proprio come nella cartina mostrata da Netanyahu. A meno che le potenze globali o regionali non stravolgano le carte: in questi giorni si è parlato di un “grande reset” della posizione americana, con Biden che vorrebbe “un’iniziativa diplomatica senza precedenti degli Stati Uniti per promuovere uno Stato palestinese”. Basterà? Tutto lascia pensare il contrario.
Per approfondire:
La storia di Nöl Collective, raccontata da Vogue e GQ Middle East;
I confini di Israele e dei territori palestinesi in sei mappe;
Una timeline completa del conflitto israelo-palestinese;
I pesanti effetti della guerra sulle donne di Gaza, sul Washington Post.
Un libro 📘
Eyal Weizman, Spaziocidio.